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1 Modulo 1 1. Esporre i vari modi in cui viene declinata la disciplina denominata con gli appellativi “Teoria dei Linguaggi” e “Filosofia del linguaggio”. La disciplina denominata Teoria dei Linguaggi corrisponde alla Filosofia del Linguaggio. Le sue denominazioni sono tuttavia molteplici: la ritroviamo infatti anche come Semiotica o Storia della semiotica. È una disciplina di tipo filosofico nonostante non richieda conoscenze pregresse in filosofia per poter essere compresa. In Italia la Teoria dei Linguaggi è entrata a far parte del mondo accademico a partire dagli anni Cinquanta e deve il suo maggior contributo alla scuola romana fondata da Antonino Pagliaro e portata avanti poi da Tullio De Mauro. Vale la pena fare una distinzione tra due definizioni: linguaggio e lingua. Il termine linguaggio può avere diverse accezioni: in primis può riferirsi alla facoltà, ossia la capacità simbolica umana, ma anche, in senso generale, ai diversi tipi di linguaggio (linguaggio verbale, codici comunicativi di altre specie, linguaggi tecnico-scientifici). La definizione di lingua invece, fa riferimento a una modalità comunicativa e cognitiva che si è evoluta nella specie umana. Si utilizza l’espressione di lingue storico-naturali proprio per far riferimento al duplice carattere storico e biologico che è tipico delle lingue parlate dagli esseri umani, il linguaggio verbale. Al centro dell’interesse della Teoria dei Linguaggi, ritroviamo quindi il linguaggio verbale, facoltà appartenente all’essere umano, che gli permette di parlare le lingue storico-naturali che si sviluppano all’interno delle collettività umane. 2. Illustrare le caratteristiche principali della contrapposizione tra filosofia analitica e filosofia continentale nel panorama culturale europeo del XX secolo. Agli inizi del Novecento con la cosiddetta linguistic turn o svolta linguistica, la filosofia ha iniziato a porre al centro delle sue riflessioni il linguaggio come condizione trascendentale di ogni esperienza. Questa svolta, condanna fermamente la prospettiva della metafisica tradizionale ottocentesca in cui il filosofo aveva la presunzione di poter dare uno sguardo esterno, o per citare Nagel, uno sguardo da un non luogo. Entrambe le tradizioni sono accomunate da questa svolta, entrambe pongono al centro della loro riflessione il linguaggio ma lo fanno in maniera differente. La filosofia continentale, nelle figure di Hamann, Herder e Humboldt, rivolge delle metacritiche a Kant, rimproverandogli di non aver saputo riconoscere il ruolo fondamentale delle lingue storico-naturali che hanno nel plasmare la realtà che circonda gli esseri umani. La filosofia analitica tende invece ad evidenziare le imperfezioni e le ambiguità del linguaggio (pensiamo ad esempio alla polisemia e all’omonimia) e sente forte quindi la necessità di emendarlo creando dei sistemi meno imperfetti. Tra gli analitici citiamo: Frege, Russel e Wittgenstein. Anche il superamento della metafisica è un elemento comune alle due tradizioni, ma che viene declinato in modalità divergenti. Negli analitici questo si traduce con un uso della scienza e della logica proprio per emendare il linguaggio dalle sue imperfezioni, come detto pocanzi. Nei continentali invece, l’autosuperamento della filosofia si declina in una vicinanza alle scienze umane con le quali dialogare alla pari. Le due tradizioni rivendicheranno una superiorità sull’altra: gli analitici accuseranno i continentali di mancanza di rigore scientifico e di argomentazioni precise nei propri contributi, mentre a loro volta i continentali accuseranno gli analitici di adottare una prospettiva troppo chiusa e rigida che tende ad escludere, proprio per il suo eccessivo tecnicismo, chi non è direttamente coinvolto nella discussione. Dalle critiche reciproche, evidentemente costruttive, entrambe le tradizioni traggono elementi di profitto, per questo motivo si parla di prospettive post-analitiche e post-continentali. 3. Spiegare che cosa si intende per superamento della metafisica in rapporto al linguistic turn che ha caratterizzato la filosofia del Novecento accomunando filosofi analitici e filosofi continentali. Entrambe le tradizioni, rompono con la filosofia ottocentesca che risale al tempo di Aristotele, in particolar modo con le filosofie idealistiche di Fichte, Hegel e Schelling. Hegel, nella sua celebre opera La fenomenologia dello spirito, propone un sapere assoluto. La filosofia del Novecento, a seguito del linguistic turn, la cosiddetta svolta linguistica che accomuna entrambe le tradizioni, analitica e continentale, propone un approccio meno
2 totalizzante e circoscritto ad ambiti più ristretti e in dialogo con altre discipline, in cui il linguaggio assume un ruolo centrale. Il superamento della metafisica è dunque un elemento comune alle due tradizioni, ma che viene declinato in modalità divergenti. Negli analitici questo si traduce con un uso della scienza e della logica proprio per emendare il linguaggio dalle sue imperfezioni. Nei continentali invece, l’autosuperamento della filosofia si declina in una vicinanza alle scienze umane con le quali dialogare alla pari. Le due tradizioni rivendicheranno una superiorità sull’altra: gli analitici accuseranno i continentali di mancanza di rigore scientifico e di argomentazioni precise nei propri contributi, mentre a loro volta i continentali accuseranno gli analitici di adottare una prospettiva troppo chiusa e rigida che tende ad escludere, proprio per il suo eccessivo tecnicismo, chi non è direttamente coinvolto nella discussione. Dalle critiche reciproche, evidentemente costruttive, entrambe le tradizioni traggono elementi di profitto, per questo motivo si parla di prospettive post-analitiche e post-continentali. 4. Presentare la concezione strumentalista del linguaggio e quella che a essa si oppone in modo critico. La concezione strumentalista considera il linguaggio come uno strumento per comunicare senza però tenere conto di diversi fattori, come l’esistenza di diverse lingue ad esempio che in questa prospettiva non sono viste una ricchezza, un valore aggiunto, ma come uno strumento che serve soltanto ad esprimere qualcosa, indipendentemente da esse. È chiaro che, se si considera una lingua come un semplice strumento, si tenderà a privilegiare, tra le varie lingue, quella che comunica in modo più efficace, e ciò ha inoltre tutta una serie di implicazioni anche di natura politica. Ugualmente, il rapporto tra dimensione cognitiva e dimensione comunicativa sembra non essere rilevante nella concezione strumentalista del linguaggio. Tullio De Mauro, nella prefazione di Saussure e gli strutturalismi di Marina De Palo, critica questa prospettiva affermando che nella concezione strumentalista il linguaggio è considerato come una machine à parler, cioè un dispositivo che utilizziamo senza sapere bene il suo funzionamento, un congegno che ci è dato ed è utilizzato così com’è, proprio come noi ci serviamo dell’aereo o altri mezzi, esclusivamente per il raggiungimento del nostro scopo. Di conseguenza il soggetto parlante non viene considerato, la soggettività linguistica si serve esclusivamente del linguaggio. Opposta a questa concezione ritroviamo l’idea di lingua come Weltansicht o prospettiva sul mondo (Visione del mondo) elaborata da W. Von Humboldt. In questa prospettiva, ogni lingua è caratterizzata dalla dimensione cognitiva ancor prima che quella comunicativa, dunque le varie lingue sono diverse tra loro sia dal punto di vista comunicativo che dal punto di vista della categorizzazione. In questa concezione, la soggettività linguistica assume un ruolo centrale. Il parlante, anche se eredita una lingua, può imprimere in essa delle impronte, e influenzarla in maniera profonda. Questo accade soprattutto negli usi letterari e creativi della lingua, un esempio su tutti è Dante. 5. Esporre sinteticamente le principali caratteristiche della semiotica di Peirce presentando le nozioni di segno, con le sue diverse tipologie di semiosi e di type e token. Il pensiero è sempre legato ad un processo semiotico. Ogni processo di conoscenza fa parte della semiosi. Questa attività semiotica avviene attraverso la produzione di segni diversi. Peirce definisce il segno come “Qualcosa che sta per qualcuno al posto di qualcos’altro, sotto certi aspetti o capacità”. Questa sua definizione evidenzia il carattere triadico del processo semiotico, un triangolo ai cui vertici troviamo il segno o rapresentamen, l’interpretante e l’oggetto immediato. L’interpretante è colui che spiega come sia possibile che un segno faccia riferimento ad un determinato oggetto. Quest’ultimo quindi, innesta il processo semiotico affiancato dall’oggetto dinamico che è la realtà stessa dell’oggetto alla cui conoscenza mira il processo semiotico. Il segno ha con l’oggetto una serie di relazioni molto diverse tra loro e il modo in cui il segno entra in rapporto con l’oggetto è classificato da Peirce che definisce con: indice, icona e simbolo. L’indice ha una relazione di contiguità con l’oggetto a cui si riferisce, ad esempio se consideriamo il fumo, è indice della presenza del fuoco. L’icona raffigura l’oggetto in una serie di relazioni caratterizzate dalla similarità, cioè non una somiglianza uno a uno. L’icona a sua volta si suddivide in: immagine, metafora e diagramma. L’immagine ha un’analogia mimetica con l’oggetto, pensiamo alla foto ad esempio; la metafora associa elementi analogici di tipo astratto, mentre il diagramma riproduce rapporti tra elementi come nella mappa di una città.
3 Il simbolo ha una relazione arbitraria con la realtà, ossia un rapporto stabilito da una legge generale. Le lingue storico-naturali rientrano in questa categoria. I segni non sono entità isolate, essi si inseriscono all’interno dei codici che ne permettono l’interpretazione. Senza di essi infatti un parlante non è in grado di poter interpretare i segni. I segni hanno un’occorrenza singola con delle caratteristiche individuali che in semiotica si definisce col termine token a sua volta composto da un senso e un’espressione. Per comprendere il token bisogna però ricondurlo all’interno di una classe generale astratta, il type che si compone di significato e significante. 6. Presentare la classificazione ascendente dei codici (dai più elementari al più complesso) presentata da Tullio de Mauro. Tullio de Mauro ha proposto una classificazione dei codici facendo riferimento ad una serie di regole che riguardano l’organizzazione del loro contenuto. La sua classificazione parte dunque da quei codici più semplici per via via raggiungere un grado maggiore di complessità. La sua analisi permette inoltre di comprendere anche come nei codici più complessi vengano utilizzate strategie semiotiche diverse. I più semplici sono i codici elementari (o della certezza) come il semaforo o la spia della benzina. Il semaforo ha due codici in realtà: l’arancione lampeggiante che ne segnala soltanto la presenza e il funzionamento normale che prevede invece il rosso (non si può passare), l’arancione (tra poco non si potrà più passare) e il verde (è possibile passare). La spia della benzina è un codice ancora più semplice se vogliamo perché si compone di due segni: significante zero, quando la spia è spenta significa che c’è abbastanza carburante, e significante spia accesa che indica che il carburante sta terminando. Questi codici elementari che non presentano ambiguità e quindi la loro interpretazione è assolutamente univoca, sono definiti appunto anche codici della certezza. I codici del risparmio sono costituiti da segni ordinati come lo zodiaco, che sono codici seriali. I segni dello zodiaco nella loro successione, appunto seriale, ci danno informazioni che non riguardano soltanto il singolo segno, per questo motivo sono definiti codici del risparmio. Abbiamo poi i codici combinatori del risparmio che aggiungono alla serialità un’ulteriore potenzialità all’interno di un sistema combinatorio. I cataloghi ne sono un esempio calzante, sono codici funzionali che permettono di creare una moltitudine di combinazioni attraverso un numero limitato di segni. I codici dell’infinito sono così definiti perché in grado di generare un numero infinito di elementi grazie all’introduzione dei numeri. L’infinità di questi codici è data essenzialmente da due caratteristiche: l’iterabilità, ossia la ripetizione di uno stesso segno dà luogo ad un segno diverso e la regola secondo cui ad un insieme di segni si può sempre aggiungere un’altra cifra. Se tutti questi codici finora elencati possono definirsi della certezza per il fatto di poter sempre giungere ad un unico significato, nei codici dei calcoli non è così. Infatti nei calcoli entra in gioco la sinonimia assoluta in cui il risultato è sempre lo stesso. (1+1=2 come 3-1=2). Fin qui siamo dunque giunti ad esaminare un tipo di codice a segni articolati, di numero illimitato e ordinabili in modi infiniti e con sinonimia. Anche le lingue storico-naturali hanno queste caratteristiche con la differenza che la sinonimia non è mai assoluta. Se prendiamo ad esempio le parole: micio, gatto domestico e felino, è chiaro che sono sinonime nel senso che fanno riferimento allo stesso referente extralinguistico, ma non è una sinonimia assoluta per il fatto che ogni termine viene utilizzato in un contesto ben preciso, hanno quindi una connotazione diversa. 7. Esporre le principali caratteristiche semiotiche delle lingue storico-naturali. L’espressione lingue storico-naturali appare una definizione ossimorica, in cui si accostano cioè dei termini che sembrano apparentemente opposti, storia e natura. Questa contrapposizione evidenzia la realtà complessa della lingua che viene definita naturale perché normalmente si sviluppa come facoltà in tutti gli esseri umani, storico perché è un qualcosa che viene ereditato ed è quindi frutto di un processo storico di cui non si può dare un’origine ben precisa. Una delle caratteristiche delle lingue storico-naturali è la sinonimia, che non è una sinonimia assoluta. Se prendiamo ad esempio le parole: micio, gatto domestico e felino, è chiaro che sono sinonime nel senso che fanno riferimento allo stesso referente extralinguistico, ma non è una sinonimia assoluta per il fatto che ogni termine viene utilizzato in un contesto ben preciso, hanno quindi una connotazione diversa. Altra caratteristica è la creatività che deve essere considerata da diversi punti di vista: da un lato si intende la capacità di fare un “uso finito di mezzi finiti” per utilizzare una citazione di Humboldt e quindi creare frasi
4 diverse iterando uno stesso sintagma, come avviene per i numeri, dall’altro la creatività fa riferimento alla capacità di modificare la lingua in particolar modo nella deformabilità semantica delle parole. Un ulteriore aspetto della creatività è la variabilità delle lingue sia a livello diacronico, ossia nello sviluppo nel tempo che vede introdurre nuove parole e altre diventare obsolete, sia a livello sincronico che corrisponde cioè ai diversi modi in cui una comunità parla una determinata lingua a seconda del contesto e delle situazioni comunicative. Anche l’imitazione rientra nella creatività linguistica, cioè quella capacità che ci permette di imparare una lingua imitando e che non è un mero procedimento emulativo, ma è anche un momento creativo e attivo che ci permette di porci delle domande rispetto agli usi della lingua, chiedere precisazioni, avere determinate conferme. Questo è ciò che definisce le capacità epilinguistiche o metalinguistiche di un parlante. La plasticità semantica è un’altra caratteristica che fa riferimento all’impossibilità di porre dei limiti alla deformabilità semantica delle parole perché è solo nell’uso che si sperimentano determinate forme. Tuttavia un limite si impone proprio a livello etico, cioè l’esigenza avvertita dai parlanti di farsi comprendere. Di pari passo alla plasticità semantica troviamo l’onniformatività ossia la capacità del linguaggio di ricodificare al proprio interno i contenuti di altri codici. Molti studiosi affermano che non sia possibile tradurre la totalità dell’esperienza con il linguaggio verbale e che spesso mancano proprio dei termini adatti per farlo, ma l’onniformatività può essere considerata anche come il tentativo di colmare tale vuoto con la capacità di creare dei termini ad hoc. Si può inoltre distinguere il linguaggio interiore o endofasico da quello esteriore o esofasico. Nel primo caso si tratta dell’attività linguistica che il parlante fa nella propria mente e in cui gode della massima libertà, mentre quello esofasico è quello rivolto agli altri. Bisogna comunque tener presente che anche nel linguaggio endofasico ci si attiene sempre a determinate regole comuni e quindi non si tratta di un linguaggio dell’incomunicabilità. 8. Spiegare la specificità dell’Italian Theory, all’interno della filosofia continentale, individuandone i principali interpreti. L’Italian Theory o Italian Thought prende forma a partire da un articolo di Remo Bodei all’interno del Vocabulaire européen des philosophies edito da Barbara Cassin del 2004. In questo articolo Bodei evidenzia nella filosofia italiana un carattere aperto, di estroflessione che le permette di accedere all’esperienza nelle sue molteplici dimensioni. Roberto Esposito è un altro studioso di questa filosofia e ne ha sviluppato una ricerca che ha ottenuto grande riconoscimento anche a livello internazionale ed è Il Pensiero Vivente. In questa sua opera in cui ricostruisce la storia filosofica del pensiero italiano, egli include non soltanto letterati come Dante e Vico, ma anche personalità poliedriche appartenenti al mondo dell’arte, della politica, della critica e della filosofia tra cui: Leonardo, Machiavelli, Bruno, Beccaria, Leopardi, Pasolini, Gramsci. Anche Esposito come Bodei, sottolinea la capacità del pensiero filosofico italiano di non chiudersi in sé stesso ma di aprirsi all’esterno grazie anche all’uso di un linguaggio comprensibile e che si rivolge ad una collettività, esattamente il contrario di ciò che avveniva con la filosofia metafisica classica che invece era chiusa e per certi versi anche elitaria proprio questo suo utilizzo di un linguaggio strettamente tecnico e di difficile comprensione, almeno per chi non era del settore. In questa prospettiva ovviamente il linguaggio assume un ruolo centrale nel pensiero filosofico e Dante e Vico ne sono un fulgido esempio. Per entrambi la dimensione religiosa non può prescindere dalla meditazione sul linguaggio. Jürgen Trabant ha osservato come nel De Vulgari Eloquentia, Dante fosse consapevole di compiere un qualcosa di assolutamente avveniristico, cioè cercare di arrivare ad un volgare ideale che si distinguesse da tutti i dialetti parlati nella penisola italiana e che potesse essere sottratto alla mutevolezza, caratteristica delle lingue-storico naturali. Dall’altro lato Vico, si confronta in maniera critica invece con la filosofia dualistica cartesiana, (questa sua critica sarà la base fondamentale della sua Scienza Nuova) che era diventata la filosofia della modernità e egli in particolar modo propone di superare tale dualismo con quella che Trabant definisce la prima vera Linguistic Turn, svolta linguistica, attribuendo al linguaggio “favella”, un ruolo di mediatore e quindi unificatore tra corpo e mente. 9. Presentare i diversi indirizzi del naturalismo linguistico all’interno della filosofia antica Il naturalismo linguistico, considera la tesi secondo cui nella ricerca etimologica di una parola, i nomi debbano essere in grado di riflettere determinate caratteristiche dell’oggetto a cui si riferiscono. Nella filosofia antica, questa posizione può essere riscontrata nel Cratilo di Platone.
5 Quest’opera è un dialogo sul linguaggio che vede protagonisti Socrate (maestro di Platone), Ermogene e Cratilo. Nei dialoghi platonici, Socrate assume sempre il ruolo di personaggio fondamentale, Cratilo difende una posizione naturalista secondo cui il linguaggio è per natura (physei), mentre Ermogene sostiene la tesi del linguaggio per convenzione (thesei). Cratilo quindi sostiene che i nomi rispecchino la vera essenza delle cose, mentre Ermogene ritiene piuttosto che il linguaggio sia frutto di un accordo tra parlanti, una convenzione appunto e che quindi esso non rifletta alcuna caratteristica della realtà. Socrate nei dialoghi di Platone, assume sempre una posizioni ironica attraverso la quale tenta di smontare le convinzioni dei suoi interlocutori e dimostrare che l’unica consapevolezza è di non sapere. Si può dire che la sua posizione è in realtà una non posizione, che mira più a distruggere che a costruire, per questo motivo di daloghi platonici sono definiti aporetici cioè che non approdano ad una tesi positiva. Per alcuni interpreti come Formigari, tuttavia il Cratilo non è un esempio di questi. Infatti Socrate smonta la tesi convenzionalista di Ermogene affermando che i nomi come strumenti possono essere ugualmente adatti a denominare determinati oggetti. Socrate quindi ricorre ad uno strumentalismo gnoseologico che evidenzia come il nome serva a classificare le cose e concepisce il linguaggio come uno strumento conoscitivo che segue determinate regole. Inoltre mette in luce la fallacia della tesi convenzionalista rilevando che già per il fatto di potersi accordare sull’uso di una lingua implica che ci sia già un linguaggio condiviso senza il quale un accordo sarebbe impossibile. Nella critica a Cratilo e alla sua posizione naturalista, Socrate fa notare invece che esistono nomi che non fanno uso di strategie onomatopeiche per far riferimento all’oggetto nella realtà, ma che sono altrettanto efficaci per assolvere al loro compito. Un indirizzo del naturalismo linguistico è l’epicureismo che prende il nome da Epicuro di Samo. Si tratta di un indirizzo filosofico che delinea una storia naturale della parola, basato su uno sviluppo graduale del linguaggio che afferma la continuità tra le facoltà cognitive ed espressive umane e quelle proprie di altre specie animali. La tradizione naturalista epicurea è quindi di tipo gradualista e continuista e si oppone a quella dello stoicismo che affermava invece che il linguaggio umano è sia cognitivamente che comunicativamente differente rispetto alle capacità comunicative degli animali. 10.Spiegare quali interpretazioni contrastanti sono state date della concezione del linguaggio di Aristotele a partire dal celebre del De Interpretatione Aristotele si occupa del linguaggio da un punto di vista ampio, ciò gli consente di prendere in considerazione anche l’espressione significativa di altre specie animali e le condizioni morfologiche che consentono loro di produrre articolazioni linguistiche simili a quelle umane. Il linguaggio umano dunque, evidenzia dei tratti specifici, l’unico di concepire discorsi apofantici ossia enunciati dichiarativi che possono corrispondere al vero o al falso. L’opera di Aristotele è stata un punto di riferimento fondamentale per le riflessioni filosofiche a venire sul linguaggio. Nel De Interpretatione, Aristotele afferma che i “suoni della voce sono simboli delle affezioni che hanno luogo nell’anima e le lettere scritte lo sono dei suoni della voce”. Umberto Eco ha interpretato quest’opera affermando che Artistotele, delinea un triangolo semiotico in cui le parole sono da un lato legate ai concetti, dall’altro alle cose. Le parole sono simboli delle passioni e il simbolo è inteso come puramente convenzionale arbitrario. Nell’interpretare questo passo invece, Franco Lo Piparo propone una visione globale a partire dalla lettura complessiva delle opere di Aristotele, comprese anche quelle dedicate alla biologia, all’etica e alla politica. Una visione complessiva sembra essere dunque necessaria per poter comprendere ciò che davvero intende Aristotele. Nella traduzione di Lo Piparo il significato del simbolo si è perso. Esso è stato assimilato a quella di semeion, segno, ma questo fa riferimento a segni naturali fisiognomici. Con l’espressione katà syntheken, non si fa riferimento a convenzione ma piuttosto a una sintesi che coinvolge la dimensione articolatoria e quella semantico-cognitiva. Lo Piparo evidenzia la complessità del pensiero aristotelico evidenziando una concezione aristotelica opposta a quella del convenzionalismo. La lingua non è uno strumento ma un fine e si costituisce in una modalità autopoietica cioè tutte le sue dimensioni si richiamano in maniera circolare. 11.Presentare l’evoluzione del naturalismo linguistico nel pensiero di Dante Dante, nelle sue opere de De Vulgari Eloquentia e del Convivio, in cui ricercava un volgare ideale agli scopi poetici, mostra un atteggiamento quasi contrastante nei confronti di questa lingua. Da un lato infatti, il volgare e ra considerata la lingua materna, che egli ci propone con

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